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Rocciarotonda

Una giornata d’inverno
 

Il freddo sole d’inverno iniziava a illuminare l’alba di un nuovo

mattino, sollevando dalla terra un candido vapore ovattante. Intor-
no a lui tutto era bianco, immerso in quella densa nebbia, e dentro di

essa i chiari faggi spogli si disegnavano come pallide ombre.
Non poteva però soffermarsi su quel silenzio intriso di umidità, o

godere di quella calma profonda nella quale riposava la faggeta. No-
nostante la nebbia lo proteggesse, lui lo sapeva, i suoi inseguitori era-
no ormai sulle sue tracce da diversi giorni. Non poteva concedersi

alcuna tregua: non dovevano scoprire in che luogo si stesse dirigendo.
L’aria gelida gli mordeva i polmoni, spinti in un ritmo sempre più
affannato, mentre il cuore gli pulsava freneticamente nelle orecchie.
La bruma del bosco gli inumidiva il volto, addolcendo il sudore e
imperlandogli i lunghi e leggeri capelli argentei.

I suoi occhi erano abituati a quel biancore accecante: era in condi-
zioni simili che era nato e cresciuto e, nonostante la nebbia, riusci-
va a correre rapido come un cervo, saltando ora su una roccia, ora su

un tronco abbattuto, più silenzioso di una lince.

Si muoveva curvato in avanti, proteggendo con le braccia e le spal-
le un infante di poche lune appena. Il suo mantello blu era sgualcito

e sudicio e non riusciva a sottrarre la fragile creatura dalla fredda
morsa di quella mattina d’inverno.

L’uomo uscì dal bosco di faggi. Ai suoi piedi, sul fondo di una pare-
te di roccia verticale, alta molte decine di braccia, si trovava un pic-
colo villaggio di montagna, incastonato in una gola fra aguzze rocce

grigie che squarciavano il manto bianco di nebbia come coltelli. Era
arrivato: lì viveva il fratello di Feérs.
L’uomo emise un leggero canto e spiccò un salto nel vuoto. Ma non

cadde, come avrebbe fatto qualunque altro essere vivente. Al con-
trario, l’aria lo sollevò trasportandolo leggero su una brezza delicata

e, a mano a mano che si alzava, vedeva scomparire il villaggio, velato
dalla nebbia.

Librandosi in aria, riuscì a superare tutto il centro abitato e a ri-
cadere nella corte dell’ultima casa, quella più in alto, costruita al

fianco opposto della gola. Un uomo che si trovava lì, vedendoselo

piombare dal cielo, rimase come impietrito; nonostante la corpora-
tura robusta da fiero guerriero, questi aveva un’espressione attonita

di fronte a quell’essere capace di volare, dai lineamenti fini ma de-
cisi, che continuava a guardarlo senza dire una parola, senza tradire

alcun sentimento, con due intensi occhi del colore del ghiaccio.
L’altro aspettò che il guerriero si calmasse, prima di spostare il

mantello e mostrargli l’infante. Poi, sempre in silenzio, tese le brac-
cia e glielo porse.

Era una bimba. Scostando una raffazzonata coperta da quel viso
perfetto, le grosse dita indurite del guerriero sfiorarono la morbida
guancia della bambina e qualcosa d’indefinibile accadde.
Il guerriero abbassò gli occhi, rapito dall’incanto di quella nuova

vita, e la bambina rispose dedicandogli uno sguardo curioso e strin-
gendogli un dito con una forza sorprendente per una creatura così

piccola.
«Il sangue di tua sorella scorre in lei.»
Il guerriero sollevò di scatto lo sguardo sul nuovo arrivato e la sua
espressione s’intristì bruscamente.
«Esatto, hai capito bene,» disse l’uomo dagli occhi di ghiaccio

«Kaila sarà al sicuro con te, noi siamo destinati alla sconfitta e all’o-
blio. Crescila come fosse tua, non parlare di me con nessuno e fai

attenzione: non sono il solo su queste terre. Altri come me la cerca-
no» concluse, prima di chinarsi sulla piccola per baciarle la fronte

con tenerezza paterna. Poi una brezza si sollevò e lui balzò su di essa
sparendo, ingoiato nella nebbia, lasciando la bambina fra le robuste
braccia di quel guerriero, esterrefatto.
Il vento lo accompagnò lontano, il più lontano possibile da quel

villaggio, da quel guerriero e da quella bambina, e in esso si riversa-
vano amare lacrime e pezzi del suo cuore distrutto.

Doveva allontanarsi da sua figlia o l’avrebbero trovata, come sta-
vano per trovare lui.

«Mi hanno quasi raggiunto» sussurrò a se stesso, lanciandosi
guardingo giù per un ripido crinale.
La foschia gli impediva di vedere a più di dieci passi davanti a sé,
ma sapeva che, ormai, i suoi inseguitori non dovevano essere molto
distanti. Poco importava se l’avessero trovato. L’essenziale era che
non trovassero lei. Lasciare la bambina tra quelle montagne gli era
costato tutto il suo vantaggio, ma era stato necessario farlo. Sarebbe
morto pur di salvarle la vita.

I suoi occhi allenati al chiarore cercavano affannosamente di per-
cepire un movimento inconsulto, ma, come cristallizzata dal freddo,

la foresta invernale era immobile.

Scivolando fino ai piedi di un pendio, raggiunse il greto di un tor-
rente e si mise a correre seguendone il corso. Se avesse volato anco-
ra, i suoi inseguitori l’avrebbero visto.

I suoi piedi toccavano solo di tanto in tanto le rocce, e l’effimera
spinta del passo lo faceva avanzare rapido e silenzioso.
I suoi sensi erano tesi e vigili come quelli di una preda braccata
da un invisibile predatore; ogni suono, ogni odore, avrebbe potuto
rivelargli la presenza dei suoi cacciatori.

Si fermò su una collinetta brulla per riprendere fiato, accuccia-
to dietro una roccia. Era così infangato da sembrare lui stesso una

zolla di terra. Sapeva però che non sarebbe stato il mimetismo a sal-
varlo nella disperata fuga da quei nemici. Scrutava attento la valle

che si apriva sotto la collina su cui si era rifugiato, quando un’ombra
veloce apparve per poco più di un istante, saettante fra gli alberi,
seguita da altre due.

Le sue lunghe mani sfilarono dal fodero una spada dalla lama tra-
slucida e variopinta.

Si lasciò scivolare su una corrente d’aria fino ai piedi della collina,

lanciandosi a sua volta all’inseguimento. Corse, balzando sugli spo-
gli rami dei faggi.

Accorgendosi di essere braccati, i tre si fermarono e attesero: la
maggioranza numerica avrebbe dato loro un notevole vantaggio in
battaglia; ma la loro vittima era un Sahin della Seconda Cerchia e lo
scontro non sarebbe stato facile.
Lo aspettarono in una radura silenziosa; l’erba era incurvata dal

peso dell’acqua tramutata in ghiaccio. Con le loro sottili spade stret-
te in mano, i tre attendevano in un’intensa immobilità, rotta solo

dal lieve movimento dei rami nudi degli alberi. I loro mantelli neri,

impreziositi da ricami d’argento, ondeggiavano sinuosamente acca-
rezzati dal vento. I loro volti, quasi identici a quelli del loro insegui-
tore, erano contratti in una maschera di concentrazione.

Improvvisamente l’aria aumentò il suo impeto, il fruscio degli al-
beri divenne un ululato assordante. Nella foresta si udirono schioc-
chi violenti di rami spezzati, travolti dalla forza improvvisa del ven-
to; l’erba cristallizzata si schiacciò al suolo e dal bosco, davanti a

loro, uscì lui, furente come solo una creatura millenaria può essere
quando investe il nemico e maestoso come la collera degli Elementi.
La sua lama quasi invisibile colpì, velocissima e micidiale, uno degli
inseguitori, che cadde a terra privo di vita. L’uomo dai capelli grigi
sparì e il vento si calmò.
Poi un’altra ondata d’aria, ancora un suono assordante, altri rami
cedettero alla spinta. Il fuggiasco piombò a terra a pochi passi dai
nemici, poi individuò il loro capo e si fiondò su di lui con la velocità
di una saetta. Poteva sentirlo dentro le proprie membra: il capo di
quel gruppetto era un Sahin, come lui, anche se meno potente.

Questi non si attendeva un attacco da terra e si trovò in posizio-
ne di svantaggio. Il suo compagno intervenne nello scontro, frap-
ponendo la propria spada a quella del nemico, evitando la morte al

proprio capo.
La sua arma si tagliò come fosse stata di carta, riuscendo solo a

deviare la spada del fuggiasco. L’uomo si trovò a terra, il colpo ave-
va inciso profondamente la sua faccia, e il suo occhio destro non

era altro che un ricordo. Ma in quel concitato momento che lo vide
sconfitto, un istante prima di cadere sotto la potenza di quel Sahin
nemico, era sicuro di essere riuscito a colpirlo.
Il fuggiasco sparì di nuovo nella nebbia. Qualcosa non andava.
Guardò in basso e vide un profondo squarcio sul proprio fianco. In
ritardo, un’ondata di dolore lo pervase. Con il fiato corto riprese a
fuggire, tenendosi il fianco e sapendo che, ferito in quel modo, non

poteva tornare all’attacco né continuare a scappare: sapeva che sa-
rebbe morto, ma l’istinto lo spinse a proseguire la fuga; l’altro Sahin

si avvicinava, inesorabilmente. Il sangue fuoriusciva copioso, insi-
nuandosi fra le dita che teneva premute sulla ferita.

Il nemico apparve sopra un rilievo, aveva ormai incoccato una
freccia su uno scuro arco ricurvo.
Era finita.
Con un ultimo slancio cercò di allontanarsi per evitare il tiro, ma
la stanchezza ebbe il sopravvento. Cadde a terra.
Il nemico tese la corda.

Il tempo si fermò; sapeva che quella era la fine, il limite del suo es-
sere era arrivato, dopo centinaia di cicli solari anche lui era giunto

di fronte all’inconoscibile.
La mano nemica liberò la corda e una freccia trafisse il misterioso
uomo; un vento poderoso si levò ed egli scomparve nei suoi flutti,
lasciando solo una traccia di sangue laddove giaceva poco prima.
Kaila aprì gli occhi di colpo e mise a fuoco la finestra congelata
della sua stanza. Aveva ancora fatto quel sogno. Chissà quante volte,

ormai, aveva visto quell’uomo morire; quante volte aveva visto sem-
pre lo stesso arciere scoccare sempre la medesima freccia.

Non ne poteva più.

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